Anime Dannate
di Riccardo De Luca
da “L’altro figlio” di Pirandello e “Filumena Marturano” di Eduardo
con musiche di scena da i canti di Sergio Bruni
personaggi e interpreti
Maragrazia, Filumena Marturano – Tina Femiano
Ninfarosa – Francesca Fedeli
note di drammaturgia e regia
Due storie di madri, Maragrazia e Filumena, sciagurate e terribili. “Sciagurata e terribile femmina” – scrive di Filumena Silvio D’Amico – “che dopo essersi fatta sposare con un anello da un’amante egoista, si rifiuta di rivelargli quale dei tre figli di lei sia figlio anche di lui, e gli impone d’accettarli, con elastica fede, tutti e tre.” Come non scorgere Pirandello, dietro i funambolici, machiavellici giochi di Filumena Marturano. E come lei, anima dannata e potente madre è Maragrazia de “L’altro figlio”. Entrambe, prima come donne e poi come madri, in epico scontro con l’inferno.
La povertà delle due donne unita alla povertà dell’ambiente e degli uomini che le circondano è forza devastante e condizionante al massimo per le due esistenze. Nessuna delle due sarebbe stata quello che poi sarà – a teatro il passato non esiste – se non perché costrette da altrui volontà anch’esse dipendenti da altre costrizioni. “L’inferno” dunque, “sono gli altri”.
Ecco un altro incontro – tra i tanti, nelle pieghe della scrittura, nella trama della cultura, nei segni dei personaggi – tra Pirandello ed Eduardo. E un ideale scontro, tra i pochi, attraverso il confronto a distanza tra le protagoniste di queste due storie: la tragicomica Maragrazia e la drammatica Filumena. La crudelissima storia di Maragrazia che si specchia e si capovolge nella vicenda di Filumena.
Perché Maragrazia è madre violentata e rifiutandosi persino di allevare e di riconoscere il figlio avuto, l’altro figlio – ritorna il sartriano infernale “altro” – imbocca la via dell’ automortificazione; e come curiosamente spesso accade a chi la imbocca, la spettacolarizza. I due figli nati precedentemente alla violenza diventano per lei oggetto di culto, ne fa infatti degli inetti. E quando questi emigrano e non danno più notizie, passerà il tempo a farsi fare inutili lettere da spedire ai due fuggiaschi e a ripudiare odiosamente l’aiuto che l’altro figlio le continua sempre a offrire, distruggendone la vita e automortificando la propria facendosi randagia, cenciosa, ripugnante, patetica, tenerissima morta di fame.
Filumena, come Maragrazia, prima subisce ma quando diventa madre, al contrario di Maragrazia che confonde e sostituisce il vero “altro” nemico sociale e umano con l’altro figlio, questa stessa maternità – poco importa se attraverso la Madonna delle rose o che – le darà la forza di reagire. Con astuzia, senza moralismi e persino con cinico istrionismo Filumena tenta d’imporre la “sua” verità; e lasciandola poi sedimentare, l’impone. Maragrazia nega convinta la maternità a l’altro figlio perché il suo sangue si ribella. E quindi istintivamente, selvaggiamente vive la terribile dissociazione della verità, perché anche lei – come tutti – ne ha una irrefutabile. E come Maragrazia pirandellianamente assurge a simbolo di una realtà nostra ancor oggi perduta nei mille rivoli delle verità diverse ecco che Eduardo con Filumena ci offre una via d’uscita – con valore dignitosamente autoaffermativa e non autolesionistica – che Pirandello e i suoi personaggi non hanno saputo o potuto trovare.
La prima storia si concentra sulla spettacolarizzazione che Maragrazia stessa fa di sé, svelandosi, spiegandosi poi nel finale. Con lei dialoga e interagisce Ninfarosa, una spregiudicata donna che ha il compito di mettere a nudo le negatività del comportamento di Maragrazia e di tutta la loro sconfitta comunità di povera gente. Ludicamente, la multiforme Ninfarosa ha il compito – per contrasto – di fare apparire ancor più lugubre la vicenda dei conterranei, ché quando appare, drammaticamente, “pare che splenda il sole”. Non meno protagonista di Maragrazia, Ninfarosa è senz’altro il suo dialettico, ironico opposto e anche se fortemente reagente alle sue disgrazie, esce anch’essa probabilmente sconfitta in quanto senza quell’ “amore” di cui avrà dono Filumena, con cui riscattarsi e quindi sola, schiacciata da una comunità di sconfitti.
Non é sola Filumena: la sua maternità é spinta e fonte per il suo stesso riscatto esistenziale. Contro la realtà e con violenza d’attuazione – ideale, quindi – per rialzarsi, combattere, esistere. Dice di Filumena Domenico Soriano, con disprezzo: “una donna che non piange, non mangia, non dorme!” al contrario di Maragrazia, che piange, piange, piange e mangia, avidamente, seppure resti di cibarie datole per carità, e non ha difficoltà a dormire persino per terra, per strada. Anzi è soddisfatta. Anima in pena e dannata – come Filumena – Maragrazia dà dunque spettacolo di sé. Anche Filumena lo fa ma in certo senso da regista fingendosi attrice, perché obbliga gli altri ad agire secondo i suoi intenti. Pirandelliana, eppure concretamente al di là della tragedia di Pirandello.
In scena questi personaggi sono soli e a volte dialogano con altri personaggi che non vediamo e che sono dalla parte del pubblico. A volte dialogano con voce fuori campo; con i versi delle canzoni; con la voce registrata del cantante – affascinante e terribile andare in tono con Sergio Bruni! – che diventa testo anch’esso. Questo crea un voluto isolamento dei personaggi e della loro personale storia che vorremmo si scrutassero come attraverso una lente d’ingrandimento: e che dall’inferno di queste acrobate dell’esistenza arrivasse un umano segnale.
Riccardo De Luca
rassegna stampa
Anime dannate, i due volti della maternità. Tra Eduardo e Pirandello.
di Angelo Otero, Il mondo di suk
Maternità, frutto di stupro, rinnegata. Maternità, frutto d’amore, accettata, pure se consumato nel luogo sbagliato. Maragrazia de L’altro figlio e la nostra Filumena Marturano. Pirandello e Eduardo. Una lunga storia di influenze e differenze. Il pessimismo pirandelliano che scaturisce dai bui meandri del profondo. Quello di Eduardo generato dalla mancanza di mobilità sociale, dalla diversa e iniqua distribuzione della ricchezza; e accresciuto dall’ anomala e sofferta condizione familiare, che nella trasfigurazione artistica ha dato vita a personaggi maschili gretti e figure femminili coraggiose e drammatiche, tra le più grandi nella storia del teatro novecentesco. Nell’ originale scrittura di Riccardo De Luca, poliedrico autore attore regista e, in questo lavoro, anche voce recitante, il confronto a distanza tra i due drammaturghi si ripropone a distanza ravvicinata, nell’accostamento di due figure femminili o, meglio, due diversi modelli di comportamento, di due modi di vivere la maternità: scelte diametralmente opposte, eppure entrambe segnate dall’analfabetismo, la sofferenza e le angustie tipiche di un umile àmbito di provenienza. Impossibile per Maragrazia accettare il frutto di uno stupro ad opera di un uomo che tra l’altro ha privato di un padre i suoi due figli. La logica del rancore prevale sull’istinto materno. Invoca il ritorno dei figli legittimi emigrati in Sudamerica. Si rifiuta di credere di essere stata dimenticata da loro e, nell’inutile attesa si abbandona all’abbrutimento. Impossibile per Filumena aspirare al matrimonio con i suoi precedenti postribolari, nemmeno riscattati dalla maternità e da anni di servaggio. Otterrà a fatica un cognome per i suoi figli. La sua è una vittoria apparente: pure lei, in fondo, è stata quella che gli altri hanno voluto che fosse. La siciliana Maragrazia appartiene al mondo dei vinti, Filumena al ribellismo masaniellesco che vince solo nell’happy end della trasfigurazione letteraria. Le loro storie si intrecciano, il dolore è il denominatore comune. E la sconfitta. Non meno originale la fatica registica di De Luca che dà una rappresentazione fisica della solitudine delle due donne concedendo da largo spazio al monologo o riproponendo i momenti dialogici di Filumena in absentia del secondo parlante, sia che si tratti di un interlocutore immaginario, sia di Mimì Soriano sia della voce di Sergio Bruni, melos partenopeo per antonomasia. Il suo modo struggente e appassionato di cantare viene qui elevato, mediante una oculata scelta di canzoni, a testo drammatico che dialoga e si intreccia con il testo verbale, moltiplicandone l’intensità. Penso in particolare a Torna Maggio, una tra le più belle serenate della storia della canzone napoletana, ‘o mese d’’e rrose e d’’e vase, in cui una donna dura di cuore non apre la sua finestra e la Madonna misericordiosa dà un segno a Filumena, indicandole la via più giusta, ma anche la più faticosa. Del resto, l’accostamento Eduardo-Bruni non è casuale, De Luca è affatto consapevole delle affinità elettive che legavano il drammaturgo al cantante: A ggente sa’ che dice? Ca tu si’ ‘a voce ‘e Napule. E sa’ che dice pure? Ca Napule songh’io. Si tu si’ ‘ voce ‘e Napule e Napule songh’io, chesto che vvene a dicere? Ca tu si’ a vocia mia. Se si esclude il pregevole cammeo di Francesca Fedeli che, con un efficace recitare sopra le righe, rende con grande credibilità l’insofferenza di Ninfarosa per la vecchia Maragrazia, Tina Fimiano si produce in un vero e proprio one women show tratteggiando con maestria e versatilità due psicologie femminili diversissime tra loro. Se Maragrazia ha avuto solo un antecedente filmico, prestigioso ma remoto nel tempo, e forse non da tutti ricordato, una superba Margarita Lozano, attrice spagnola che i fratelli Taviani hanno trasformato in una convincente vecchia barbona siciliana in Kaos, il personaggio di Filumena è un luogo dell’anima dei napoletani. I nomi delle interpreti e la loro lettura del personaggio fanno parte della nostra memoria collettiva. C’era di che preoccuparsi. Tina Fimiano ha stupito per la sua cifra interpretativa, improntata a grande misura e sobrietà, lontana da qualsiasi enfasi: una sofferenza raccolta e mai gridata, quasi prosciugata, ma non per questo meno toccante. Originalissimo e funzionale il costume “straccione” multistrato di Giovanna Napolitano, grazie al quale Maragrazia si cambia a scena aperta e diviene Filumena. Particolarmente efficace il disegno luci, sempre di De Luca, vero e proprio “copione iconico” che ha contribuito non poco ad esaltare i passaggi emozionalmente più intesi della performance.
ANIME DANNATE, da Pirandello a De Filippo le differenti voci della maternità. Da “L’altro figlio2 di Pirandello a “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo. Scritta e diretta da Riccardo De Luca. Con Tina Femiano e Francesca Fedeli.
di Flavia Balsamo, LINKABILE.
Due grandi fili conduttori, la maternità e il pianto, a cucire tra loro due opere teatrali distanti nel tempo. Anime dannate, scritto e diretto da Riccardo De Luca, somiglia metaforicamente a quelle coperte fatte di quadrati creati prima separati per essere poi uniti dall’abile mano ricamatrice.
Da L’altro figlio di Luigi Pirandello a Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, da una madre che piange due figli partiti per l’America e rifiuta il terzo perché venuto da un atto di violenza, a un’altra madre, sempre di tre figli, che tutti e tre cresce con solo i suoi piccoli imbrogli da femmina furba e coraggiosa.
La prima è una donna Pianto, il volto solcato dalla fame e dal dolore, con un’eccezionale Tina Femiano perfetta nel portare allo spettatore la dolce amarezza di una maternità mendica di pane e ritorni, con il contraltare caratteriale della sorprendente Francesca Fedeli, abile nel canto e nell’equilibrato scompensare il melodramma con voce di sarcasmo e glaciale saper-vivere: “Lo vede a cosa siamo brave noi? A piangere. Io però non piango”. La scena è quella scalza di orpelli, riflettente il vuoto, soltanto gli scalini di un’abitazione posti al centro del palcoscenico ma sono la dimora della donna, la sua non-casa dove si accuccia nel dolore, sono la donna stessa nel suo essere fuori dal focolare, alienata dall’assenza dei figli; così come rincalza il vuoto la scelta dell’interlocutore invisibile, di un personaggio (il dottore) che rimane senza attore ad interpretarlo, con l’opzione di quella sedia vuota che enfatizza l’emarginazione e la solitudine della donna come nelle migliori opere pirandelliane dedicate alla maternità.
La seconda, invece, è una donna che non sa piangere, che cammina in cerchio, si muove costantemente, come un’anima dannata, ma con il ritmo metodico di chi sa cosa vuole, cosa fare. Ne avrebbe motivo, anche lei, di piangere, eppure la sua scelta, la sua “legge”, è diversa. Piangerà solo dinanzi alla felicità, quando il cinismo sarà sconfitto. Molto ben orchestrati i passaggi tra le due opere e tra un racconto e l’altro delle due donne: le diverse fasi della vita dell’una e dell’altra sono delineate e accompagnate da un abile gioco di luci e musiche, con la voce di Sergio Bruni (la cui omonima Fondazione ha patrocinato la rappresentazione) che trascende il mero campo della colonna sonora per diventare ora melodica didascalia dell’evento, ora coro di una voce fuori campo che acuisce maggiormente la distanza delle due donne dal mondo maschile, patriarcale.
Entrambe sono donne che si sentono come destinate, obbligate dalla vita a vivere una determinata situazione, ma che continuano – chi con l’ossessiva richiesta di inviare una lettera ai figli lontani, e chi con disincantata praticità – a gettare in avanti la vita, in un progetto che per l’una è speranza e illusione e per l’altra attesa di una qualche ricompensa (prima o poi) del sacrificio fatto. Se la prima è obbligata dalla vita a cogliere le differenze tra i figli (tanto che confesserà di non riuscire nemmeno a vedere e udire quello nato dall’abuso sessuale), l’altra è il simbolo di una maternità che non vede differenze, che impone all’uomo di riconoscere tutti e tre i suoi figli pur essendo egli padre soltanto di uno. I figli non sono tutti uguali, i figli sono tutti uguali. Un doppio binario che palesa come la realtà possa vincere sulla carnalità dell’affetto e come l’affetto possa combattere la realtà.
Dal prototipo della donna-madre di Verga al dibattito sul matriarcato degli anni ’20 fino alla letteratura siciliana da Vittorini in poi, soltanto alcune delle eco che fanno di questa rappresentazione (andata in scena sabato 11 e domenica 12 aprile al Nuovo Teatro Sanità) un sapiente richiamarsi di storie e voci. “Gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di ieri, amare sopra i morti d’oggi” recitava così Colloqui coi personaggi di Luigi Pirandello, in un andare fuori dal tempo che annienta le differenze, avvicina riso e pianto. E, forse, l’intenzione dell’autore era proprio quella di porre in contatto, far dialogare tra loro due voci tanto simili eppur distanti, per mostrare come in entrambi i casi – che si rida o pianga – la vita possa essere un continuo tormento, come attesta la scelta di quel plurale, Anime dannate.
Emblematiche figure femminili
di Maresa Galli, NOTIZIE TEATRALI.
Un’intensa Tina Femiano, accompagnata sul palco da Francesca Fedeli, mette in scena le Anime dannate di Riccardo De Luca che firma la drammaturgia e la regia dello spettacolo che ha debuttato al Teatro Sanità di Napoli. Due le figure emblematiche, iconiche nate dalla penna di Luigi Pirandello e di Eduardo De Filippo, due autori che hanno scandagliato come pochi l’universo femminile, la sua problematicità, i sentimenti più veri.
Pirandello, nella commedia “L’altro figlio”, tratta dalla omonima novella del 1902, affronta il tema della maternità nel momento storico della grande emigrazione meridionale e siciliana. La protagonista è Maragrazia, popolana vedova e mendica, addolorata dal silenzio assordante dei due figli emigrati che hanno fatto fortuna in America. La donna, una madre consumata dal dolore, incurvata, imbruttita, trasfigurata dallo strazio, non fa che scrivere loro lettere promettendo in dono il suo misero casale. Alla fine anche Ninfarosa, l’amica che scrive per lei, l’abbandonerà alla sua tormentata esistenza, stanca di tanta ostinata cecità. Con Maragrazia però vive un altro figlio, bravo e affezionato, con una bella famiglia e una bella casa che cerca di prendersi cura della madre che non lo considera veramente suo. Il giovane Rocco Trupia è nato da uno stupro che la donna subì da parte di un brigante che aveva già assassinato suo marito. In cuor suo Maragrazia sa di sbagliare nel rifiuto dell’unico figlio che ha vicino ma non può farci nulla perché “è il sangue che si ribella” e quello stupro, quel disgusto, sono ormai parte di sé e Rocco, pur innocente, ben interpretato dalla Fedeli, glielo ricorda sempre. Gli altri due sono ingrati, senza cuore ma una madre non si arrende, dovesse consumarsi e tormentarsi e sperare fino all’ultimo respiro. Il racconto è sottolineato dai canti di Sergio Bruni che legano le storie delle due protagoniste, controcanto poetico di personaggi reali e immaginari, specchio di memorie dolenti e di sogni infranti. Ninfarosa diviene alter-ego di Maragrazia, che appartiene ai vinti, alle incolpevoli creature schiacciate dalla brutalità del destino. La scenografia, minimalista, ruota attorno ad una gradinata di legno e ad una sedia, per raccontare presenze/assenze, vita lacera scarnificata e ridotta all’osso – da mangiare solo tozzi di pane per seguire un unico scopo suicida, insieme unico filo di speranza che aggrappa a quel che resta di un’esistenza fatta a brandelli, come i cenci che Maragrazia indossa, una mimetica di piaghe dell’anima. Diversa è l’altra madre, Filumena Marturano, scolpita nell’immaginario collettivo grazie anche al cinema. Calcolatrice priva di scrupoli, forte, coraggiosa, Filumena inganna Domenico Soriano pur di proteggere i suoi tre figli e garantire loro un futuro sereno, quello che lei non ha potuto avere. Filumena è una donna vera che conosce il sacrificio, il dolore, la sopportazione, il cinismo e cercherà con l’inganno di avere ciò che le spetta o meglio, ciò che spetta ai propri figli. E finalmente, dopo aver tanto patito in silenzio, potrà sciogliersi in un pianto liberatorio, anche lei incolpevole creatura di un mondo avido che fagocita.
Riccardo De Luca spiega che “la povertà delle due donne, unita alla povertà dell’ambiente e degli uomini che le circondano è forza devastante e condizionante al massimo per le due esistenze. Nessuna delle due sarebbe stata quello che poi sarà, se non perché costrette da altrui volontà anch’esse dipendenti da altre costrizioni. L’inferno, dunque, sono gli altri”.
Il regista ben immagina dialoghi con altri personaggi che non si vedono (il dottore, i figli, Dummì) e offrendo ancora una lettura delle due donne, mirabilmente interpretate da Tina Femiano che commuove e intenerisce accompagnando per mano negli abissi umani e nella poesia racchiusa nel cuore di ogni donna.